La direttiva “due diligence”, ovvero la dovuta diligenza, regolamenta gli obblighi delle società relativamente agli impatti negativi effettivi e potenziali sui diritti umani e sull’ambiente sull’intera catena di valore, ovvero per quanto riguarda sia le loro attività, sia quelle delle loro filiazioni e quelle svolte dai loro partner commerciali. La direttiva stabilisce anche norme in materia di sanzioni e responsabilità civile in caso di violazione di tali obblighi.
La consapevolezza della responsabilità delle imprese in relazione all’impatto negativo delle loro catene del valore sui diritti umani ha assunto particolare importanza negli anni Novanta, quando le nuove pratiche di delocalizzazione nel settore della produzione di abbigliamento e calzature hanno attirato l’attenzione sulle cattive condizioni di lavoro di numerosi lavoratori, tra cui minori, nelle catene del valore mondiali. Nel contempo, numerose imprese operanti nei settori petrolifero, gasiero, minerario e alimentare si sono spinte in zone sempre più remote, spesso causando lo sfollamento delle comunità indigene senza consultazioni o risarcimenti adeguati. Man mano che le violazioni dei diritti umani e il degrado ambientale diventavano sempre più evidenti, sono aumentate le preoccupazioni riguardo alla necessità di garantire che le imprese rispettino i diritti umani e di assicurare l’accesso alla giustizia alle vittime, segnatamente quando le catene del valore di talune imprese si estendono in paesi caratterizzati da sistemi giuridici o meccanismi di applicazione della legge deboli, e garantire che le imprese siano chiamate a rispondere dei danni che hanno causato o contribuito a causare conformemente al diritto nazionale.
La normativa internazionale
Nel 2008 il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha unanimemente accolto con favore il quadro “Proteggere, rispettare e riparare”. Il quadro si fonda su tre pilastri: il dovere degli Stati di offrire protezione rispetto alle violazioni dei diritti umani commesse da parti terze, comprese le imprese, attraverso adeguate politiche, normative e decisioni giudiziarie; la responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani, vale a dire l’esercizio della dovuta diligenza per evitare la violazione dei diritti altrui e ovviare agli impatti negativi procurati; e la garanzia che le vittime abbiano maggiormente accesso a vie di ricorso giudiziarie ed extragiudiziarie efficaci.
Resi pubblici nel 2011, questi principi introducono il concetto di Human Rights Due Diligence (HRDD) (Dovuta Diligenza sui Diritti Umani) , un approccio basato sul rischio che prevede la mappatura e la gestione, tramite misure correttive, degli impatti avversi sui diritti umani causati dall’azienda lungo la propria filiera.
Di notevole rilevanza anche le Linee Guida OCSE sulle imprese multinazionali, il cui obiettivo è diffondere principi e standard volontari per un comportamento responsabile nella conduzione delle attività di impresa. Dopo decenni di approccio volontaristico, viste in particolare le difficoltà di garantire l’accesso alla giustizia, alcuni Stati, le istituzioni europee e quelle internazionali stanno vertendo verso un cosiddetto mandatory approach (approccio obbligatorio), e cioè la promulgazione di una serie di strumenti legislativi vincolanti volti a richiedere maggiore trasparenza e tracciabilità
alle imprese e basati sulla HREDD obbligatoria.
La normativa europea
Nell‘aprile 2020 il commissario europeo per la giustizia, Didier Reynders, si è impegnato a proporre nuove regole per le imprese in materia di diritti umani e ambiente. Dopo diversi anni di misure volontarie per le imprese, la Commissione ha finalmente compreso la stringente necessità di una migliore tutela dei diritti umani e dell’ambiente, nonché l’importante ruolo che le imprese devono essere obbligate – e non più solo incoraggiate – a svolgere.
Nell’autunno del 2020 la Commissione europea ha lanciato una consultazione pubblica per capire come elaborare le nuove regole basandosi sul contributo di cittadini e organizzazioni. Più di mezzo milione di persone – e circa 700 tra gruppi della società civile, dei sindacati e delle istituzioni accademiche – hanno partecipato alla consultazione. La maggior parte degli intervistati ha chiesto una normativa UE forte che richieda a tutte le imprese di identificare, prevenire e affrontare i rispettivi rischi di violazione dei diritti umani e dell’ambiente in tutta la propria catena del valore.
Gli intervistati concordano sul fatto che le imprese debbano essere ritenute responsabili delle pratiche dannose nei loro paesi d’origine così come all’estero, e che debbano incorrere in pesanti sanzioni in caso di infrazione.
Nel marzo 2021 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulla due diligence e la responsabilità delle imprese lanciando un forte segnale politico alla Commissione per evitare che questa tralasci elementi chiave nella sua prossima proposta, tra cui: la responsabilità in capo alle società madri per i danni causati dalle loro filiali, un migliore accesso alla giustizia per le vittime in tutto il mondo, e forti sanzioni e multe per le imprese che non riescono ad affrontare i rischi e gli impatti negativi delle loro operazioni globali.
Nel maggio 2023 il Parlamento Europeo ha adottato la sua posizione sulle norme sulla cosiddetta “due diligence” per integrare il rispetto dei diritti umani e dell’ambiente nella governance delle imprese. Con 366 voti a favore, 225 contrari e 38 astensioni, le aziende saranno tenute a identificare e, se necessario, prevenire, porre fine o mitigare, l’impatto negativo che le loro attività hanno su diritti umani e ambiente, come il lavoro minorile, la schiavitù, lo sfruttamento del lavoro, l’inquinamento, il degrado ambientale e la perdita di biodiversità. Inoltre, dovranno monitorare e valutare l’impatto sui diritti umani e sull’ambiente dei loro partner della catena del valore, compresi i fornitori, la vendita, la distribuzione, il trasporto, lo stoccaggio, la gestione dei rifiuti e altre aree.
Le norme interesseranno le imprese UE con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore a 40 milioni di euro, indipendentemente dal loro settore d’appartenenza, e le società “madri” con più di 500 dipendenti e un fatturato superiore a 150 milioni di euro. Saranno incluse anche società con
sede fuori dall’UE aventi un fatturato superiore a 150 milioni di euro, se hanno generato almeno 40 milioni di euro con business all’interno dell’UE.
Le società dovranno attuare un piano di transizione verde per mantenere il riscaldamento globale entro il limite di 1,5°. 5 Inoltre, nel caso di grandi società con oltre 1.000 dipendenti, il raggiungimento degli obiettivi del piano avrà un impatto sulla remunerazione variabile degli amministratori, come i bonus. Le società che non rispetteranno le regole saranno responsabili degli eventuali danni e potranno essere sanzionate dalle autorità di vigilanza nazionali. Le sanzioni comprendono misure quali il “naming and shaming” (pubblicazione dei nomi degli inadempienti), il ritiro dal mercato dei prodotti dell’azienda o ammende pari ad almeno il 5% del fatturato netto globale. Le aziende extra-UE che non rispettano le regole saranno escluse dagli appalti pubblici UE.
Ora che il Parlamento ha adottato la sua posizione, i negoziati con i Paesi UE sul testo finale della legislazione possono iniziare.
Secondo l’opinione pubblica e alcune ONG, la norma presenta ancora numerose lacune. Per l’European Coalition for Corporate Justice, la più grande rete della società civile dedicata alla responsabilità delle imprese nell’UE, il Parlamento non è riuscito a invertire l’onere della prova, il che significa che rimane un grave ostacolo alla giustizia. Christopher Patz di ECCJ, ha dichiarato: “Siamo di fronte a crisi climatiche ed economiche interconnesse. Il compromesso politico ha ancora una volta eroso le misure chiave per proteggere l’ambiente e fornire accesso alla giustizia. Gli occhi sono puntati sull’UE per stabilire lo standard di come le aziende dovrebbero agire. È imperativo che nel prossimo dialogo a tre il Parlamento difenda i
progressi compiuti nell’accesso alla giustizia, chiuda le scappatoie e crei una solida legge sulla due diligence che possa resistere allo stress test delle pressioni sociali, ecologiche e geopolitiche”.
Paesi europei
– Francia:
La Francia è il primo paese ad aver introdotto una responsabilità legale stabilita degli attori privati transnazionali per i diritti umani e gli abusi ambientali causati lungo la loro catena del valore, adottando la legge sull’obbligo di vigilanza nel 2017.
La legge è stata redatta dopo la tragedia del 24 aprile 2013 in Bangladesh, in cui più di 1100 persone sono morte durante il crollo del Rana Plaza , un edificio a più piani con decine di fabbriche di abbigliamento al suo interno, richiamando l’attenzione sulle spaventose condizioni di lavoro in cui lavorano milioni di persone. Subito dopo questo disastro, un collettivo di sindacati e ONG francesi si è mobilitato per costringere le multinazionali a controllare meglio le catene di subfornitura tessile.
La legge francese adottata nel marzo 2017 ha “dimostrato che è possibile porre fine all’impunità legale di cui godono diverse multinazionali”, secondo Swann Bommier, advocacy officer del CCFD-Terre Solidaire (già “Comitato cattolico contro la fame e per lo sviluppo “). Ha anche ispirato una direttiva europea che la Commissione europea ha deciso di presentare e che corregge diverse imperfezioni della legge francese e propone criteri cumulativi: applicarla alle aziende con più di 500 dipendenti e più di 150 milioni di euro di fatturato annuo.
Emmanuel Macron si è impegnato a farne una delle sue priorità, in particolare tramite la presidenza francese del Consiglio dell’Unione europea, che “potrà avviare discussioni senza indugio”, secondo Olivia Grégoire, segretario di Stato responsabile di Economia Sociale, Solidale e Responsabile.
Secondo le associazioni Sherpa e CCFD-Terre Solidaire, delle 263 imprese in linea di principio soggette, 44 non avevano pubblicato alcun piano di vigilanza, a luglio 2021.
La legge francese presenta tuttavia delle lacune. Diverse società, infatti, rimangono escluse dal suo campo di applicazione, perché si applica solo alle aziende con più di 5.000 dipendenti in Francia o più di 1.000 dipendenti in Francia e all’estero, come ha sottolineato il rapporto dei deputati Coralie
Dubost (gruppo La République en Marche) e Dominique Potier (Socialisti), presentato il 23 febbraio 2023. Questa relazione propone di abbassare la soglia in termini di numero di dipendenti e di utilizzare anche il fatturato come criterio di responsabilità.
– Germania:
Il 1° gennaio 2023 è entrata in vigore la nuova legge tedesca sulla catena di approvvigionamento, che obbliga le imprese tedesche a identificare e rendere conto del loro impatto sui diritti umani – come il lavoro forzato e minorile, gli sgomberi forzati, l’inquinamento da idrocarburi e l’accaparramento dei terreni – tra i fornitori diretti d’oltremare e, quando necessario, anche fornitori indiretti. Adottato nel 2021, il disegno di legge era un punto di partenza legislativo atteso da tempo con margini di miglioramento, che dovrebbero arrivare a livello dell’UE. La nuova legge stabilisce obblighi di dovuta diligenza che si basano sui principi guida delle Nazioni Unite e crea una forte supervisione e applicazione normativa. Se le aziende violano i loro obblighi, possono
essere multate dall’autorità competente, in base alla gravità del reato e al fatturato totale dell’azienda. Se le vittime di abusi aziendali affermano che i loro diritti sono stati violati o minacciati, l’autorità deve indagare sulla violazione e agire. Le parti interessate possono anche autorizzare le ONG ei sindacati a intentare azioni legali per loro conto direttamente davanti ai tribunali tedeschi, riducendo così alcune barriere all’accesso alla giustizia.
Italia:
In Italia non c’è alcuna legislazione in materia di due diligence. L’unico impegno è la mobilitazione della società civile. Dal 2017 al 2020 una serie di associazioni e ONG, in collaborazione con docenti e ricercatori universitari ha realizzato molteplici campagne di sensibilizzazione sul tema
“business & human rights” e si sono coordinate nelle interlocuzione con le istituzioni italiane sui seguenti temi: Non-financial reporting, Piano di azione nazionale su principi guida ONU su Imprese e Diritti Umani, Gruppo di Lavoro Intergovernativo delle Nazioni Unite per la definizione di un trattato vincolante su imprese e diritti umani.
Il 13 novembre 2019 a Milano, Mani Tese , in collaborazione con FIDH, HRIC, Fair, Campagna Abiti Puliti e Comune di Milano, ha organizzato il seminario internazionale “ Human Rights Due Diligence. Principi e pratiche emergenti in Europa: quale ruolo per l’Italia? ” a cui hanno partecipato cento persone. Nell’occasione è stata presentato l’ebook: “ Business e Diritti Umani. Come vincolare la libertà di impresa al rispetto dei diritti umani” . Human Rights International Corner ha pubblicato una sintesi 10 del d.lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e delle associazioni e delle relative implicazioni in relazione al business e diritti umani, insieme ad un report dei punti di forza e di debolezza della stessa legge come modello per una legge italiana sulla due diligence obbligatoria.
La questione sociale è stata riproposta durante il festival Itaca del turismo responsabile , la cui edizione 2022 ha visto come protagonisti i comuni di Lanusei, Jerzu, Ussassai e Villagrande Strisaili in Sardegna, in vista della nuova direttiva europea sul Dovere di vigilanza, che riguarderà gli operatori turistici.
Questo festival ha discusso di responsabilità sociale d’impresa (CSR) con i sindacalisti locali della Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL), la prima confederazione italiana a denunciare le condizioni operative di alcuni gruppi turistici. Si è discusso di bassi salari, la precarietà stagionale e lo sfruttamento. Un lavoratore stagionale può gudagnare tre euro l’ora e lavorare fino a tredici ore al giorno.
Due diligence e turismo
Settore spesso passato sotto il radar nei dibattiti in cui si discutono i principali temi di responsabilità sociale, il turismo e la sua versione recentemente di moda denominata ” turismo sostenibile ” fanno comunque parte dei grandi settori interessati, perché milioni di viaggiatori nel mondo molto spesso
non sanno come vengono trattati i dipendenti nei paesi di destinazione delle loro vacanze.
L’ Organizzazione Mondiale del Turismo ha istituio, alla fine di luglio 2018, una piattaforma per incoraggiare tutte le parti interessate, pubbliche e private, a contribuire, avviare e attuare politiche e pratiche sostenibili per ridurre gli effetti negativi del turismo sulle risorse naturali e affrontare la mobilità delle infrastrutture e le questioni socioculturali.
Tra le maggiori sfide a breve termine, l’impatto delle emissioni di gas serra, ovvero la gestione/recupero dei rifiuti lungo tutta la catena del valore degli attori del turismo, alberghiero e della ristorazione, con un focus molto particolare sulla plastica.
Al tema sociale, sempre più rilevante, si aggiunge quello del rispetto dell’ambiente. Chi non ha mai notato nei paesi del sud come il consumo eccessivo di risorse alberghiere come l’acqua possa prosciugare completamente le falde acquifere?
I quattro fenomeni più eclatanti nel settore del turismo sono:
- Viaggiatori provenienti da paesi ricchi che visitano paesi del sud generalmente più poveri;
- Condizioni di lavoro ritenute insoddisfacenti negli alberghi o nelle imprese locali, dove i dipendenti soffrono di precarietà derivante da contratti brevi, non garantiti dall’applicazione di accordi collettivi su orario di lavoro e retribuzione;
- Difficoltà a far valere i propri diritti con i datori di subappalto, che il più delle volte rendono estremamente difficile la costituzione di sindacati;
- Ma anche l’affermarsi di una “certificazione” da parte di organismi realmente “autonomi” dei maggiori operatori turistici, con un dovere di vigilanza in vista dell’imprescindibile rispetto da parte dei presidi degli standard sociali e ambientali lungo tutta la filiera dei propri fornitori, al fine di evitare che la concorrenza si svolga solo ai “prezzi più bassi”, in un ambiente in cui le multinazionali del settore alberghiero o della ristorazione hanno difficoltà a verificare se condizioni di lavoro dignitose, o azioni che non distruggano l’ambiente sono effettivamente implementati.