PAKISTAN: RINA e l’incendio mortale di Ali Enterprise
“La fabbrica in fiamme è diventata una trappola mortale per mio figlio. Nessuno potrà mai rimediare per questa perdita. Tuttavia i proprietari della Ali Enterprises, KiK come cliente e RINA come certificatore italiano dovrebbero essere ritenuti responsabili per la sua morte”
Saeeda Khatoon, presidente dell Ali Enterprises Factory Fire Affectees Association.
SETTORE: tessile e abbigliamento
TEMA: Diritto del lavoro, salute e sicurezza, social audit
IMPRESE
COMUNITÀ COLPITE
Lavoratori e lavoratrici tessili in Pakistan e loro famiglie: milioni di lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento pakistane sono pagati al di sotto del salario minimo, sono costretti a fare gli straordinari, e non possono contare su associazioni sindacali realmente indipendenti. Sebbene il lavoro minorile sia illegale, in alcune fabbriche pakistane si trovano a lavorare anche minori di 14 anni.
La vicenda
A causa di un incendio nella fabbrica tessile Ali Enterprise di Karachi in Pakistan, che produceva abiti per il brand tedesco di fast fashion KiK, oltre 250 lavoratori e lavoratrici persero la vita e in decine rimasero feriti. Appena tre settimane prima, la fabbrica era stata certificata come sicura dalla società italiana RINA SpA. Con l’archiviazione del caso da parte del tribunale di Genova e un tentativo di mediazione presso il Punto di Contatto Nazionale italiano, RINA SpA non ha ad oggi affrontato alcuna conseguenza per la sua negligenza.
L’11 settembre 2012, a causa di un incendio nella fabbrica tessile Ali Enterprise di Karachi in Pakistan, che produceva abiti per il brand tedesco di fast fashion KiK, oltre 250 lavoratori e lavoratrici persero la vita e in decine rimasero feriti. Appena tre settimane prima, la fabbrica aveva ottenuto la certificazione SA8000 (Social Accountability International) dalla società di certificazione RINA SpA, che aveva dunque accreditato la fabbrica come sicura. Tuttavia così non era, perché la fabbrica presentava diverse mancanze e infrazioni alle norme sulla sicurezza (fra le quali assenza di porte antincendio e sistema di allarme antincendio non funzionante, una sola uscita di sicurezza per 1000 lavoratori, porte sbarrate, ed altro). Un’accurata ricostruzione dell’incendio, condotta dalla società Forensic Architecture e commissionata dallo European Center for Constitutional and Human Rights, ha dimostrato che se tali mancanze e infrazioni fossero state identificate da RINA nel suo audit e dunque corrette per tempo, l’incendio non avrebbe causato tutte quelle morti.
In Italia, l’associazione delle famiglie delle vittime, con il supporto di legali italiani, ha denunciato RINA presso la Procura di Genova (dove ha sede la società) ma il procedimento è stato archiviato. Coadiuvata dalle organizzazioni della Campagna Abiti Puliti, ECCHR e da altre organizzazioni no profit e sindacali pakistane, l’associazione delle famiglie delle vittime ha dunque intrapreso una procedura di mediazione presso il Punto di Contatto Nazionale dell’OSCE chiedendo a RINA, tra le varie richieste di riforma strutturale, di fornire sostegno finanziario e scuse ufficiali alle famiglie delle vittime dell’incendio; nonostante le Raccomandazioni espresse dal PCN in tal senso, RINA non ha dato alcun seguito alla richiesta e ha fatto fallire la procedura di mediazione rifiutando di firmare l’accordo proposto dal conciliatore nominato dal Punto di Contatto Nazionale. Ad oggi, dunque, RINA non ha affrontato alcuna conseguenza concreta per avere certificato secondo lo standard sociale SA8000 una fabbrica che non rispettava i minimi requisiti di sicurezza, circostanza che è costata la vita a centinaia di persone le cui famiglie sono state risarcite solo in parte, grazie ad un lunga campagna internazionale condotta dalla Clean Clothes Campaign e dai sindacati, e che ha portato a negoziare un accordo per il risarcimento parziale delle vittime secondo il modello adottato dopo il crollo del Rana Plaza. L’accordo ha impegnato Kik a versare in tutto 6.15 Mln di dollari per risarcire la perdita di reddito e le cure mediche secondo la Convenzione ILO 121 sugli infortuni sul lavoro.
Questo caso è rilevante dal punto di vista della responsabilità delle imprese per le violazioni dei diritti umani da almeno due prospettive: quella della responsabilità dell’azienda committente KIK, e quella della responsabilità e del ruolo della certificazione sociale dell’azienda RINA.
Il brand KIK si avvaleva di questa fabbrica per produrre i propri prodotti: il brand non si è preoccupato però di assicurarsi in prima persona che la fabbrica fornitrice fosse sicura, non adempiendo così alla sua responsabilità sancita dai Principi Guida delle Nazioni Unite su Imprese e Diritti Umani.
In secondo luogo, la Ali Enterprises era stata certificata come fabbrica sicura secondo lo standard SA800O dalla società italiana RINA, che aveva a sua volta appaltato gli audit, palesemente inaccurati e superficiali, alla società pakistana RI&CA.
Se ci fosse stata una direttiva sull’obbligo di due diligence sui diritti umani lungo tutta la filiera, KiK, nel suo ruolo di acquirente principale, sarebbe stata obbligata a cercare di garantire il rispetto dei diritti umani e del lavoro riconosciuti a livello internazionale nella fabbrica Ali Enterprise e non avrebbe potuto delegare questa responsabilità.
Più in dettaglio: